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Sicuramente è stato uno dei giocatori più amati e al tempo stesso contestati che abbia vestito la casacca biancoceleste. Parliamo di Lionello Manfredonia, cresciuto con l’aquila sul petto ma consacratosi con la maglia giallorossa.

In una lunga intervista al Corriere dello Sport, l’ex difensore romano ha raccontato la sua storia. Ecco qui uno stralcio di quell’intervista di Manfredonia: Era destino. Sono nato in Piazza della Libertà, dove fu fondata la Lazio. Ho iniziato a giocare tirando calci al pallone in cortile. Come in un film, o in una favola, la mia vita cambiò perché un condomino mi guardava giocare dalla finestra, pensò che fossi bravo e mi convinse a fare un provino al Don Orione. Avevo dodici anni. Era la prima volta che giocavo con la formazione a undici. Me la cavai e indossai la mia prima maglietta, tutta bianca con una croce nera. Me la cavavo e allora l’allenatore che aveva un cognome adatto per lavorare al Don Orione, si chiamava Paradiso, mi portò a fare provini con Juve, Inter, Fiorentina. Mi bocciarono tutti. Ma tanto io sapevo che se anche mi avessero preso mio padre non mi avrebbe fatto andare via di casa così presto. Avevo 14 anni. Mio padre aveva insistito perché tentassi con la sua squadra del cuore. Mi avevano già visto in una partita al Flaminio nella Coppa Berti e “Flacco” Flamini mi aveva segnalato. Giocavo centrocampista, ero buono con i piedi ma, sinceramente, non avevo molto grinta. Sì, ero un po’ signorino. Mi misero negli Allievi B. Io ci restai male perché ero abituato a giocare con i ragazzi più grandi e invece mi avevano messo con i miei coetanei. Dopo un mese mi promossero con gli Allievi A e io mi tranquillizzai. Ci allenava Guenza che abbiamo recentemente festeggiato per i suoi ottanta anni. Era un bel gruppo. Di Chiara, Agostinelli. Giordano… Vincemmo il campionato primavera proprio nell’anno in cui la Lazio vinse lo scudetto con Maestrelli”.

Famiglia biancoceleste ma cuore rossonero: “Io tifavo Milan. Con grande dispiacere di mio padre, che pure non era un fanatico. Avevo la stanza tappezzata di poster di Rivera e Prati. Mia madre non era tifosa ma mi seguiva ovunque. Ero l’unico maschio e stravedeva per me. Un po’ mi ha viziato. Ma sono felice di averla resa orgogliosa di me”. Manfredonia racconta il suo esordio in serie A con la maglia della Lazio nel 1975: “Era il coronamento di un sogno e di tanta fatica. L’Olimpico pieno, la maglia della prima squadra. Il futuro squadernato davanti. L’allenatore era Giulio Corsini. Che poi fu sostituito da Tommaso Maestrelli. Me lo ricordo, anche se stette per poche partite. Ci salvammo all’ultima giornata. Era malato, faceva fatica. Era un padre di famiglia, comprensivo, solo lui poteva tenere insieme personaggi non semplici come Wilson o Chinaglia. Sembrava impossibile ma lui ci riusciva. La Lazio di quegli anni? Sono sincero. Era, dal punto di vista tecnico una squadra fortissima. Ma dal punto di vista disciplinare un gruppo un po’ pazzo. Il sabato mattina prima della partita Re Cecconi e Martini andavano a fare i lanci col paracadute. Se lo immagina oggi Pjanic o Felipe Anderson che il sabato fanno la stessa cosa? Oppure andavano a sparare a Tor di Quinto. Non c’era disciplina, E noi siamo cresciuti in quel contesto. Lo vedevamo fare ai campioni e credevamo si potesse fare qualsiasi cosa, che funzionasse così. Ricordo una partita in cui avevamo preso un gol evitabile. Dissi a Martini “però cerchiamo di coprire…”. Lui reagì in modo stranissimo, voleva spaccarmi una bottiglia in testa. Non ho mai capito il perché. Forse la causa era la mia giovanile irriverenza ma fu strano”.

Dopo 10 anni alla Lazio, Manfredonia nel 1975 passa alla Juventus e due anni dopo alla Roma: “Il Presidente Viola mi chiamava spesso e mi offriva un contratto lungo. Alla fine accettai. Il risultato fu che la tifoseria della Roma andò in subbuglio perché arrivava un laziale e quella della Lazio si sentì tradita. Un bel capolavoro. Si formò persino, in curva, un Gruppo Anti Manfredonia. Io andai da Viola e gli dissi che altre squadre mi cercavano e che era meglio andassi via. Lui mi rispose: “Non ti preoccupare, andiamo avanti”. Gli obiettai: “Sì, ma in campo ci vado io”. Continuai e dopo un po’ la situazione migliorò. Ma è stata complicata, sono specialista nel complicare le cose, in primo luogo a me stesso. Dovevo rispettare i sentimenti della gente. Ma ho un ottimo ricordo della Roma. E dei dieci anni nella Lazio”.

Manfredonia racconta la sua amicizia con Giordano:Ci siamo conosciuti che eravamo ragazzini. A quattordici anni ci abbracciavamo dopo un gol. Io di Roma Nord, lui di Trastevere. Lui con la faccia da scugnizzo e io con l’aria da figlio dell’avvocato. Una coppia improbabile ma perfetta. Un anno litigammo. Chinaglia volle, come allenatore, Lorenzo. Che era un tipo strano, amante della scaramanzia. Insomma tolse la fascia di capitano a Giordano e la mise a me. Bruno se la prese. Si crearono due fazioni, cosa ancora più odiosa perché eravamo amici. Il gruppo si sfaldò e retrocedemmo. Poi morì la mamma di Bruno e io andai ai suoi funerali. Da allora siamo tornati amici e non smetteremo di esserlo. Cosa ricordo della Lazio? I miei primi dieci anni nel calcio. E’ la maglia con la quale ho esordito. La Lazio, nella mia vita, è stata tantissimo. Ho fatto, tra squalifica e arresto cardiaco, una carriera più breve delle altre. Ma piena della pasta della vita: le vittorie, la fatica, la sfortuna, gli errori, le discese ardite e le risalite”.

Fabrizio Piepoli

Articolo pubblicato da Fabrizio Piepoli il giorno 31 Ottobre 2015 10:15
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