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Gottardi: Il più forte della mia Lazio, tra le battute taglienti di Zeman, i casini di Eriksson e quel pagamento forzato da Lotito

I segreti dell’eroe della Lazio che ha conquistato i cuori negli anni ’90! #LazioLeggenda #CalcioStorie

Immaginate un calciatore che da giardiniere svizzero è diventato il jolly imprescindibile di una squadra leggendaria, vincendo trofei e rubando il cuore dei tifosi. Guerino Gottardi, simbolo della Lazio di Eriksson negli anni ’90 e primi 2000, racconta in un’intervista la sua avventura piena di aneddoti e riflessioni, che ancora oggi affascina i appassionati di calcio. Non era un fenomeno, ma la sua versatilità e la dedizione lo hanno reso un eroe cult per i colori biancocelesti. Dalla Svizzera a Roma, la sua storia è un mix di umiltà, successi e vita oltre il campo, che vi farà venire voglia di scoprire di più su come un semplice giocatore sia diventato leggenda.

Gottardi inizia dal suo background familiare, descrivendo le radici che hanno forgiato il suo cammino. «A Berna andò prima mia mamma, che curava la casa di un notaio, poi papà che ha cambiato tanti mestieri di tutto: prima ha lavorato nelle risaie, poi ha fatto il camionista, quindi il portinaio». Questa frase rivela quanto le esperienze dei suoi genitori abbiano instillato in lui un forte senso di resilienza e adattabilità, mostrando come la vita di un calciatore spesso nasca da storie ordinarie piene di sacrifici.

Parlando del suo ingresso nel mondo del calcio, Gottardi ripercorre i primi passi, unendoli al suo lavoro quotidiano. «Correvo, correvo. Si iscrissero i miei amici, dissi “vengo anch’io”. È cominciata così. Diplomato giardiniere paesaggista, lavoravo fino alle 13 come giardiniere e alle 16 andavo ad allenarmi. I miei genitori mi hanno insegnato che una base devi averla». Qui, emerge la curiosità di un debutto casual e determinato, che illustra come il calcio per lui fosse una passione secondaria ma intensa, bilanciata con un’etica lavorativa solida, rendendolo un esempio per chi insegue i sogni senza trascurare la realtà.

Il suo rapporto con le competizioni europee è un capitolo intrigante, dove il mistero del suo impiego lo rendeva quasi un talismano. «Tutto quel che si poteva tranne la Champions. Giocavo più in coppa, non ho mai capito il perché. Era diventata quasi una barzelletta e allora dicevo che giocavo solo quando contava». Questa citazione sottolinea il suo ruolo decisivo nei momenti cruciali, suscitando interesse su come un giocatore “normale” potesse brillare proprio quando la posta in gioco era alta, trasformando una curiosità in un vantaggio per la squadra.

Ricordando i suoi allenatori, Gottardi non nasconde aneddoti divertenti e critici. «Tutti e tre. Quante battute mi faceva Zeman se la sera uscivo. Ci pesavano il giorno dopo. E lui “Ma che ti sei mangiato le pietre, ieri sera?”. Sulla fase offensiva era bravissimo, su quella difensiva meno perché difendevamo a metà campo e lasciavamo troppo campo agli avversari». In questa frase, si intravede il carisma di Zeman e il mix di umorismo e rigore nei suoi metodi, che rende palpabile l’ambiente spogliatoio e fa riflettere su come l’allenamento influisse sia sul fisico che sullo spirito dei giocatori.

Sull’allenatore che ha segnato la sua carriera, le parole di Gottardi sono di elogio e ammirazione. «Forse il migliore che ho avuto. Intelligente, parlava poco, ma ti capiva e ti faceva vivere». Questo commento evidenzia l’intelligenza emotiva di Eriksson, che sapeva motivare senza eccessi, creando curiosità su come un approccio minimalista possa portare a vittorie memorabili e a un’armonia di gruppo.

Lo spogliatoio della Lazio era un crogiolo di personalità, e Gottardi lo descrive con vividezza. «Tante personalità forti. Si litigava dentro, ma in campo spariva tutto. Argentini, brasiliani, slavi, italiani. Il più tosto era Alen Boksic; quando aveva la luna storta non era semplice. L’ho rivisto un paio d’anni fa, abbiamo fatto una serata con Beppe Favalli e Paolo Negro che sento sempre e ci siamo divertiti. Per fortuna era in buona…». Qui, si percepisce l’energia di un gruppo eterogeneo che trasformava le tensioni in forza, invitando il lettore a immaginare le dinamiche umane dietro i trofei vinti.

Uno dei momenti clou della sua carriera è il gol che ancora oggi riecheggia. «In finale di Coppa Italia col Milan nel 1998. Fu complicata perché all’andata perdemmo 1-0 e al ritorno loro andarono in vantaggio. Entrai nel secondo tempo e girò la partita. Segnai. E giocammo una ripresa mostruosa, prendendoci la coppa». Questa frase cattura l’eccitazione di una rimonta epica, spiegando come un singolo ingresso possa cambiare il corso di una partita e rendendo palpabile il dramma sportivo che appassiona i tifosi.

Sul suo ruolo in campo, Gottardi è schietto e riflessivo. «Un centrocampista, una mezzala. Io amavo giocare lì. Ma correvo, ero veloce ed esplosivo e già in Svizzera mi schieravano sulla corsia. Sinistra o destra. Zeman mi chiedeva di coprire tutta la fascia. Ho giocato terzino e punta. Non ero un fenomeno, i miei compagni sì. Era una Lazio fortissima». In questo passaggio, si evidenzia la sua versatilità come chiave del successo, suscitando interesse su come un giocatore non “stellato” possa comunque essere essenziale in una squadra dominante.

Parlando dei compagni, emerge una sorpresa. «Vi stupirò: Jugovic. Mai visto uno che con i tacchetti a sei compiva gesti tecnici di quel genere, e sorridendo. Tanta qualità, difesa, attacco. Non era bello da vedere, ma mi affascinava». Questa citazione spiega l’ammirazione per Jugovic, mostrando come il talento possa essere sia tecnico che carismatico, e invitando a riflettere sulle qualità nascoste che definiscono un grande giocatore.

I legami oltre il campo erano altrettanto forti. «Di Favalli e Negro le ho detto. Le serate erano con Winter e Di Matteo, due fratelli. Una sera ogni tanto perché giocavamo tre volte a settimana. L’amatriciana è sempre nel cuore». Qui, si delinea l’amicizia che sopravvive al calcio, con aneddoti quotidiani che aggiungono un tocco umano e familiare, rendendo la storia più relatable.

Sul suo rapporto con la dirigenza, Gottardi è diretto. «L’ho visto da poco per un evento celebrativo, ma non ho grandi contatti. E poi mi ha dovuto pagare per tre anni, perché io avevo firmato il piano Baraldi. Quei soldi me li ha dovuti dare lui. Cragnotti è stato il mio presidente. Una squadra del genere l’ha fatta lui e gli va dato atto». Questa frase illustra le complessità del mondo calcistico, spiegando le dinamiche finanziarie e manageriali con una nota di gratitudine, che accresce la curiosità sui retroscena delle carriere.

Oggi, la vita di Gottardi è lontana dai riflettori, ma piena di lezioni. «Perché in Italia non sei tutelato dallo Stato, in Svizzera sì. Se uno non ti paga l’affitto dopo tre mesi puoi mandarlo via, a Roma ci misi tre anni. Acquisto immobili, vendo e affitto. Ho seguito l’esempio dei miei genitori. Non ho sperperato, con quel che guadagnavo compravo case. Questo non è un bel momento». In questo commento, emerge la sua saggezza post-carriera, che collega il calcio alla vita reale e invita a riflettere su come i valori appresi in campo influiscano sul futuro.

Infine, l’aspetto burocratico della sua identità resta un enigma. «Una lunga storia, burocratica. A 19 anni rifiutai la nazionalità. Sarei entrato in Italia da straniero. A 25-26 anni la Svizzera mi propose di entrare. Io avevo tutto in Italia, fossi stato sposato con una svizzera sarebbe stato semplice, ma mi ero separato. Quando feci la proposta me la bocciarono. Niente passaporto. Ora sono residente in Svizzera, ho il permesso C, di domicilio, ma voto in Italia». Questa citazione spiega le sfide personali che ha affrontato, aggiungendo un velo di mistero e mostrando come la sua vita sia un ponte tra due mondi, un finale che lascia il lettore con domande e ammirazione per un’icona del calcio.

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