Serse Cosmi si confessa: storie di un’icona del calcio italiano tra Gaucci, misteri e passioni perdute. #SerseCosmi #CalcioItaliano #SerieA
Immaginate un allenatore che ha segnato il calcio italiano con la sua grinta inarrestabile e quel cappellino diventato leggendario. Serse Cosmi, in una lunga intervista al Corriere della Sera, apre il cuore sulla Serie A imminente, condividendo ricordi che mescolano aneddoti sorprendenti e riflessioni profonde. Le sue parole non sono solo un tuffo nel passato, ma un invito a riscoprire l’essenza autentica di questo sport, suscitando curiosità su come il calcio sia cambiato e cosa rende un allenatore un vero maestro.
Parlando di Luciano Gaucci, Cosmi lo definisce un personaggio unico e affascinante. «Gaucci lo metto davanti a tutti, ma in senso positivo. Vi assicuro che era realmente diverso da come si voleva porre, nella vita normale era un’altra persona. E questo aspetto mi faceva impazzire. Quando ho iniziato ad avere più confidenza glielo dicevo. Lui mi guardava e si metteva a ridere. Era un cavallo di razza». Questa descrizione incuriosisce, portandoci a riflettere su come le apparenze nel mondo del calcio possano nascondere storie più complesse e umane.
Poi, Cosmi si addentra in un episodio enigmatico: il figlio di Gheddafi e il suo breve passaggio nel calcio italiano. Non si tratta solo di un giocatore, ma di una vicenda che nasconde motivazioni più profonde. «Non è la domanda giusta. Chiaro che come calciatore non la meritava. Però non pensate che Gaucci fosse talmente pivello o stupido da prenderlo senza motivo, tant’è vero che con il Perugia giocò in tutto 12 minuti. Dietro c’era un disegno molto più sofisticato». È un racconto che stimola l’immaginazione, facendoci chiederci quali intrecci di potere e sogni abbiano influenzato le scelte dietro le quinte del calcio.
Allenare qualcuno come lui ha lasciato un segno indelebile su Cosmi, trasformando un’esperienza professionale in una lezione di vita. «Lo stesso Gheddafi non pensava di essere un grande giocatore. Però da lui ho imparato una grande lezione: lui in quel momento aveva il mondo in mano e si è impegnato a fondo per realizzare il grande sogno di giocare qualche minuto in Serie A. Coltivava il desiderio che può avere qualsiasi bambino». Questa citazione evoca una curiosità genuina: come può un privilegio così estremo ispirare una dedizione pura, simile a quella di un bimbo che insegue un pallone?
Le radici di Cosmi, legate al suo soprannome “l’Uomo del Fiume”, aggiungono un tocco personale che rende il suo racconto ancora più avvincente. «Sono nato a Ponte San Giovanni, sul Tevere. Sono stato un bambino dell’ultima generazione che ha imparato a nuotare nel fiume». È un dettaglio che invita a esplorare come le esperienze infantili modellino un allenatore, collegando il fiume al suo approccio passionale al calcio.
Rievocando l’adolescenza, Cosmi dipinge un quadro nostalgico e affascinante di un’epoca perduta. «Ho avuto un’infanzia e un’adolescenza bellissime che mi lasciano ricordi nostalgici. Avevamo tutto quello che bastava. La pesca nel fiume, la balera dove conoscere le prime fidanzate. E poi le partite infinite a calcio che erano dettate esclusivamente dal giorno e dalla notte. Non c’era bisogno di orologi, quando cominciava a far buio tornavamo a casa e la mattina dopo eravamo già pronti a rivivere la giornata. Era una Disneyland meravigliosa, l’unico brutto ricordo è legato alla morte di mio papà quando avevo 15 anni». Questa riflessione suscita interesse su come quei giorni liberi e selvaggi abbiano forgiato la sua visione del gioco.
Dal campo alla vita reale, Cosmi ricorda la sua carriera da giocatore con un misto di umiltà e ironia. «Ho frequentato la Serie A in un altro ruolo e ho capito che mi mancava tutto, a parte la passione. Ero il classico giocatore che non avrei mai voluto allenare». È un’ammissione che cattura l’attenzione, facendoci domandare cosa distingue un giocatore mediocre da un allenatore leggendario.
Infine, Cosmi critica con passione il declino del calcio italiano, puntando il dito su ciò che è scomparso. «Non solo per questo. Ma sicuramente è venuto a mancare un elemento primitivo che ne ha fatto perdere l’essenza. Con gli amici giocavamo dalla mattina alla sera, globalmente in un giorno giocavo quello che gioca un bambino oggi in una settimana. Io come tutti i miei coetanei». E quando si arrabbia per i giocatori moderni, le sue parole sono un pugno allo stomaco: «Quando non si divertiva. Quando subiva il suo mestiere, o meglio, quando il suo privilegio diventava solo un mestiere. Se un calciatore non capiva la fortuna che aveva mi mandava al manicomio». Questa candidità lascia il lettore con un interrogativo: il vero spirito del calcio è forse sepolto sotto la professionalizzazione eccessiva, e Cosmi ci sfida a riscoprirlo? Su questi spunti, la sua intervista si chiude come un invito a riflettere sul futuro del gioco che amiamo.