Se sono laziale, lo devo al mi’ babbo. Non è la retorica del “Di padre in figlio“, che poi tanto retorica non è visto che è diventata una colonna dell’iconografia laziale. In fondo è stato il babbo a portare allo stadio molti di noi, a riempire di fascino quella squadra che, per chi laziale c’è diventato nel pieno degli anni ottanta, di fascino ne aveva pochino, a parte quello delle imprese pazze e impossibili che ai bambini in fondo piacciono.
L’unica cosa da sottolineare è che il mi’ babbo non lo chiamavo mica babbo. Non lo si chiamava babbo, quando si andava a vedere la Lazio c’erano tanti papà, come si dice a Roma. Il mi’ babbo, la tu’ mamma, queste strane locuzioni a otto anni cominciavi a sentirli quando la squadra viola veniva a giocare all’Olimpico. Quelli viola, così simili e così diversi dai romani. Sanguigni e impulsivi, ma anche un po’ più livorosi, amari. La battuta grassa e pacioccona di papà nostro contro quella tagliente e più velenosa di babbo loro. Meglio noi, è normale pensarlo in fondo: a otto anni come trentacinque.
“… della tu’ mamma!!!” quelli viola lo ripetono spesso.Potrebbe interessarti
Noi però che quelli viola abbiamo imparato a conoscerli benissimo, proprio perché tanto simili a noi e al tempo stesso così diversi, sappiamo bene che non è stato né Felipe a farli incazzare, né il buon vecchio Berisha (mortacci, altro che maremma…) a dargli false speranze. Chi li ha mandati fuori di testa è stato Milinkovic-Savic. Sergej al “Franchi“, nonostante fosse al primo gol in Serie A, c’era già stato. E forse aveva parlato col su’ babbo, che a furia di sentire babbo di qua, babbo di là, gli avrà detto in serbo stretto: “Ma quale babbo, non ti azzardare, io sono papà!”.
La differenza è tutta qua, un babbo che ha preferito essere papà, e una linguaccia di fuori. Alla tu’ mamma, ovviamente.
Fabio Belli

