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TEMPI BELLI – Gerry non aver paura

Quando andavo a scuola, c’era un ragazzo che tutti chiamavano Gerry. Nel mio immaginario violentato da troppi cartoni animati, parafrasando Max Collini, ho sempre visualizzato il suo nome come Jerry, il topo. Col tempo ho capito che a Roma la G si pronuncia G e basta, e non c’è niente di male in questo.

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Gerry non aveva molta voglia di studiare. Anni e anni dopo avrei potuto paragonarlo al suo omonimo protagonista del più grande road movie di tutti i tempi, “L’imperatore di Roma“. Non aveva (fortunatamente, cavolo) una storia disperata come quella nel film, ma era molto, molto più facile trovarlo per strada che sopra i libri. Per essere un ragazzino, Gerry aveva soprattutto una caratteristica: era inaffidabile. Dimenticava tutto: il libro? “L’ho dimenticato a casa.” La giustificazione? “L’ho dimenticata a casa.” Il compito da riportare? “L’ho dimenticato a casa.”

La leggenda narra che un giorno in classe qualcuno sentì la sua voce senza che lui fosse presente, che diceva: “Me so’ dimenticato a casa!

Gerry una volta smarrì tutti i cartellini il giorno in cui la squadra di calcio della scuola doveva partecipare ad un famoso torneo organizzato dal Corriere dello Sport. Con annesse carte di identità: una vera scocciatura, sembra avesse lasciato il borsone in metro. Me lo ricordo perché io venni misteriosamente convocato per quel match, ed il fatto che avessero anche solo pensato di poter considerare me tra i migliori 18 calciatori dell’istituto, la dice tutta sul dramma del programma di educazione fisica delle scuole italiane. In ogni caso, da buon teenager un po’ nerd, avevo rifiutato di consegnare la carta d’identità prima di essere al cospetto dell’arbitro. Il che mi risparmiò una lunga fila a via Telese, ma questa è un’altra storia.

Ci fu un gran parlare di Gerry, che aveva combinato l’ennesimo disastro. Il preside decise di ergersi a paladino dei diritti dello studente scapestrato, difendendo a spada tratta un ragazzo difficile che andava sostenuto e non mortificato. Così, alla fine dell’anno scolastico, a Gerry fu conferito dal boss in persona un importante incarico: consegnare presso il Ministero dell’Istruzione gli elaborati per un importante concorso letterario al quale avevano partecipato i più brillanti studenti della scuola (se qualcuno se lo stesse chiedendo, io stavo preparando i calendari del torneo di calcetto).

Da quel giorno, c’è chi giura di non averlo visto mai più.

Tutta questa storia mi è rivenuta in mente quando ieri un altro Jerry, stavolta inequivocabilmente con la “J“, si è ripresentato sul dischetto sfidando il karma che aveva chiaramente indicato come non fosse giornata. E mi è rivenuta in mente anche perché dopo Bologna-Milan ogni ombra di interesse per il campionato era svanita, e ho finito quasi con il concentrarmi più sul Carpi che sulla Lazio. La morale è che al di là dei luoghi comuni, una seconda occasione devi meritartela a meno che non ti chiami Jerry. O Gerry. O Simone, anche se per certi versi si tratterebbe della prima, ci siamo capiti. Ma anche questa è un’altra storia: ne riparliamo, eventualmente, a luglio.

Fabio Belli

P.S. Onore a te, Gerry, non aver paura di tirare un calcio di rigore. Non smettere mai di riprovarci.

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