La storia tra la Lazio e Sarri assume quasi i contorni di un racconto filosofico: quello di chi, per troppo amore, finisce alla fine per soccombere. È ciò che sta accadendo al “Comandante”. Sì, vogliamo ancora chiamarlo così, come a voler dare merito a chi non abbandona il proprio esercito nemmeno nei momenti di maggiore difficoltà.
Anzi, “Comandante” appare persino troppo rigido, formale. Meglio “Capitano”: non come Zaccagni, ma come un timoniere che lascia la nave soltanto quando affonda. Questo è Maurizio Sarri.
Per ben due volte è stato ingannato dal presidente Lotito. La prima, quattro anni fa, quando il patron biancoceleste lo chiamò per portare a compimento un progetto iniziato da Simone Inzaghi anni prima, al quale mancava la ciliegina sulla torta: vincere un trofeo. Le ambizioni c’erano tutte: una squadra formata da calciatori forti ed esperti, guidata da un tecnico vincente e scintillante.
Quel Sarri fu il più bel regalo che i tifosi della Lazio potessero ricevere. Mau arrivava da tre ottime stagioni al Napoli, in cui aveva praticato un calcio così affascinante da intimorire persino la Juventus più forte degli ultimi vent’anni. Senza dimenticare le esperienze al Chelsea e proprio nei bianconeri.
Sarri era cambiato: non più soltanto bel gioco, ma anche cinismo. Non a caso, aveva arricchito la propria bacheca con un’Europa League e uno Scudetto (restando, peraltro, l’ultimo tecnico capace di vincere un campionato a Torino). Insomma, quella con la Lazio avrebbe dovuto essere la consacrazione definitiva: dimostrare all’Europa e al mondo di saper unire spettacolo e vittorie.
Tuttavia, Lotito non fu d’accordo: il calciomercato non fu all’altezza delle aspettative. Nonostante ciò, il tecnico toscano riuscì a portare la squadra al quinto posto nella prima stagione e addirittura al secondo nella seconda, alle spalle soltanto del “suo” Napoli, quell’anno inarrestabile.
Poi il disastro, che lo spinse nella stagione successiva a rassegnare le dimissioni. Sarri si fermò: fu cercato dal Milan, che però non gli offrì mai una reale opportunità. Rimaneva il primo nome nella lista di ogni big in cerca di allenatore, ma alla soglia dei 66 anni nessuno sembrava disposto a concedergli l’ultima chance per dimostrare il proprio valore.
E invece, eccola lì: la chiamata, ancora una volta, della Lazio. “All or nothing”, direbbero in Inghilterra. Mercato bloccato, morale della rosa a terra e niente competizioni europee (il suo sogno da quando allena in Serie A). Eppure, almeno per il momento, una frase continua a rimbombargli nella testa: «Ma chi me l’ha fatto fare?»
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