Una partita come Atalanta-Lazio sembra essere un omaggio all’entropia, al bello della casualità nel gioco del calcio. Eppure, in un’estate passata a piangere sul latte versato (Bielsa), molti laziali si sono scordati di quello che c’era ancora in frigo (Inzaghi).
Inzaghino è da quest’estate che lavora a testa bassa, un po’ come il secchione al quale nessuno fa caso a scuola. Poi però tutti gli chiedono i compiti. Lui, con quella faccia da bravo ragazzo te li passa, ma lo vedi che pensa che basterebbe davvero poco per studiare e fare bella figura come lui.
E allora studiamo: tra la Lazio derelitta e rassegnata del finale della scorsa stagione e questa che si è presentata incerottata ma piena di speranze a Bergamo all’esordio del nuovo campionato, un filo conduttore c’è. A vedere Carpi-Lazio, partita ininfluente per i biancazzurri già fuori dall’Europa, ma tragica per gli emiliani retrocessi di fatto con quel ko, si potrebbero sovrapporre le azioni che hanno costruito il successo dei biancazzurri contro la squadra di Gasperini.
Allora ci furono Felipe Anderson e Candreva a fare il bello e il cattivo tempo sulle corsie esterne. Allo stadio Atleti Azzurri d’Italia erano Kishna e Lombardi, e questo può essere un fattore positivo in più. Come dire che anche mutando al ribasso la qualità degli interpreti, il risultato non cambia. La Lazio di Inzaghi, si era visto anche in amichevole al Borussia Park contro il Monchengladbach, non è esente da sofferenze difensive. In caso di pressione offensiva avversaria tende a schiacciarsi anche un po’ troppo: è il rischio di tenere la squadra corta, per poi trovare il break giusto e ripartire.
A Modena contro il Carpi, così come tre mesi dopo a Bergamo contro l’Atalanta, la Lazio l’ha fatto sistematicamente. Domenica sera i “ballbreaker“, per dirla alla maniera degli AC/DC, erano addirittura tre: Parolo, Biglia e Milinkovic-Savic, tutti in grado di interrompere e far ripartire l’azione, dote fondamentale d’altronde per qualsiasi interprete in un centrocampo a tre.
Se si resiste alla pressione avversaria, il fronte offensivo viene letteralmente ribaltato: con un attaccante come Ciro Immobile in grado di dare una profondità che solo con Klose la Lazio aveva ottenuto in fase d’attacco negli ultimi anni, l’effetto viene addirittura amplificato. Kishna e Lombardi sono stati come due elastici lanciati come coltelli nel burro dello sbilanciatissimo baricentro tattico atalantino. “Risucchiare” nella propria metà campo gli avversari quando si hanno in rosa contropiedisti doc è un trucco vecchio ma sempre efficace, soprattutto se si hanno i calciatori adatti per fatto. Per questo la scelta dei prossimi esterni sarà fondamentale: se la Lazio supererà limiti e tentennamenti di sempre e individuerà i profili giusti, gli orizzonti della squadra di Inzaghi potrebbero allargarsi all’improvviso.
Fabio Belli

Eppure il culto e la leggenda dell’immigrato Rodolfo Guglielmi che, nato povero nell’Italia del Sud, arriva nel 1915 in America in cerca di fortuna sono iscritti con forza nella storia del divismo cinematografico. La sua è stata una vita difficile all’inizio: dopo aver dormito per qualche periodo sulle panchine al Central Park di New York, viene assunto come lavapiatti in un night-club e, grazie alla sua prestanza e alle sue doti di ballerino, inizia anche a fare l’accompagnatore di attempate signore danarose. Quando una di queste per lui uccide il marito, Valentino, spaventato, scappa in provincia lavorando come ballerino nella compagnia teatrale di Al Jolson. Qui viene notato da un attore che lo raccomanda ad Hollywood e così, il fascinoso Rodolfo Valentino (nome ormai assunto come pseudonimo dal Guglielmi) nel 1919 debutta sullo schermo. Nel 1921 viene notato da una talent-scout di nome June Mathis, la quale propone alla Metro Goldwyn Mayer di farne il protagonista della pellicola di genere avventuroso “I quattro cavalieri dell’Apocalisse” (The Four Horsemen of the Apocalypse, 1921), di cui rimarrà memorabile la scena in cui balla un appassionante tango.