Dopo l’ennesima stagione fallimentare al Milan, Mario Balotelli rischia di diventare una meteora del calcio nostrano. In una lunga intervista al Corriere della Sera, l’attaccante italiano si è raccontato tra autocritiche, obiettivi e sogni nel cassetto.
CONTE HA FATTO BENE
Nonostante siano passati 4 anni, tutti hanno ancora negli occhi il gol di Super Mario alla Germania a Euro 2012, ma da allora cos’è successo? “È successo che ho fatto due anni non ai miei livelli – risponde con molta onestà Balotelli -. Problemi fisici, altri problemi, non sono stato io. E Conte giustamente ha portato altri giocatori all’Europeo. Fossi stato in lui, avrei fatto esattamente la stessa cosa. Mi spiace non essere andato in Francia ma così doveva andare. Alla gente che mi ferma dicendomi che Conte avrebbe dovuto convocarmi, io rispondo: il vero Balotelli lo convocherebbe Conte, Ventura, qualsiasi allenatore. Il Balotelli di oggi no”.
SOGNO PALLONE D’ORO
Balotelli è convinto dei suoi mezzi e mira al Pallone d’oro: “Posso fare molto di più di quello che ho detto. Però ci vuole tempo. In una scala da 0 a 10, io mi sono fermato a 5, ma piano piano al 10 ci arriverò. Perché ci voglio arrivare. Diventerò Pallone d’oro. Anche se mi rendo conto di aver fatto due anni della mia carriera dove potevo avvicinarmi al 10 e invece sono rimasto a 5. Lo so, fa ridere, posso non aver fatto tutto l’indispensabile per essere il più forte, però l’importante è che l’ho capito e non è troppo tardi. Non voglio arrivare a fine carriera con il rimpianto di non aver fatto di tutto per diventarlo. Fino a due anni fa mi accontentavo di quello che avevo. Facevo bene, sapevo di avere dei colpi, ed ero felice così. Non avevo in testa di migliorare, pensavo bastasse. Mentre da due anni a questa parte ho cominciato a lavorare seriamente, eppure i risultati non sono arrivati. Forse ho pagato i 23 anni precedenti. Però sono molto tranquillo. Sono consapevole che negli ultimi due anni cambiato da così a così.
IL RAZZISMO IN ITALIA
Diverse le polemiche tra Super Mario e i tifosi razzisti: “Due anni fa sono arrivato al punto di chiamare il mio procuratore e dirgli: Mino, io non voglio più giocare in Nazionale. Non è giusto. Io nato in Italia, cresciuto in Italia, non sono mai stato in Ghana — anche se ci andrò — per la legge è giusto che io sia italiano. Per prendere quel certificato che è appeso all’ingresso, mi sono fatto ore di coda davanti alla questura ogni anno. Qualche volta mi piacerebbe che chi insulta dicendo che non esistono negri italiani se ne ricordasse”.
I RAPPORTI CON GLI ALLENATORI
Balotelli racconta dei rapporti coi vari allenatori: “Fantastico, bello con tutti. E anche con i presidenti, con Moratti, con Berlusconi... Disastroso solo con uno: Brandon Rodgers. La rissa con Mancini? Avevo 19 anni, dopo un intervento su un compagno lui si è arrabbiato, mi ha strattonato dicendo che rischiavo di fargli male. Tutto lì. È successo al venerdì, la domenica ero titolare. Mourinho? A lui piaceva fare il cinema, ma mi voleva bene. Si divertiva a farmi arrabbiare perché pensava che avrei reso di più da incazzato. Gli imputo solo una cosa: non mi ha fatto giocare la finale di Champions. Se entravo, segnavo sicuro. Me lo sentivo”. Chiusura sul suo futuro: “Il Milan mi ha lasciato, non ci torno più. Spero di giocare nel Liverpool”.
Fabrizio Piepoli

Icona sexy e rockstar incontrollabile negli ultimi tempi, ormai preda dei suoi vizi, litiga sempre più spesso con il resto della band e con la sua compagna. Nel 1969 l’episodio peggiore. Durante il concerto di Miami, al Dinner Key Auditorium, dopo un lungo tour europeo e soprattutto dopo il tutto esaurito al Madison Square Garden, però, Morrison esagera e il concerto degenera in una vera e propria sommossa: sebbene non ci siano prove il cantante viene accusato di aver mostrato i genitali al pubblico. Il 20 settembre del 1970 viene processato e condannato per atti contrari alla morale e bestemmia in luogo pubblico, ma non per ubriachezza molesta e oscenità. È l’inizio della fine. Dopo qualche mese dal triste episodio di Miami, mentre si trova su un volo diretto a Phoenix, si fa arrestare nuovamente per ubriachezza e condotta molesta.
Le cose sembrano poter migliorare ma il 3 luglio Jim Douglas Morrison muore, in circostanze mai chiarite, nella sua abitazione. Due giorni dopo, durante un funerale di otto minuti e alla sola presenza della compagna, dell’impresario Bill Siddons, giunto dall’America, e della regista e amica di Jim, Agnes Varda, viene sepolto nel Cimitero di Père-Lachaise. Forse la morte è stata generata veramente da un attacco cardiaco, come riportato nella versione ufficiale, causato dall’eccesso di alcool; forse una morte inscenata ad hoc per fuggire dalla CIA, incaricata di “fare fuori” tutti i miti della controcultura, i sovversivi come Morrison, Janis Joplin, Jimi Hendrix; o forse, date le sue frequentazioni parigine, una overdose di eroina pura, molte sono e restano le congetture fatte sulla sua morte.
Anni in cui la tecnologia avanzava tra la locomotiva a vapore e la rapidità impulsiva del telegrafo elettrico in un incedere inesorabile, foriero di invenzioni, soluzioni e ritrovati che hanno contribuito a delineare i contorni della seconda rivoluzione industriale. Al crepuscolo del secolo precedente il progresso assurgeva a concetto fondante dell’identità occidentale. E con la forza di conquiste scientifiche ritenute fino a poco tempo prima impensabili sconvolgeva ogni campo dell’attività umana. Compresa la mobilità: con l’incontro decisivo tra petrolio e ingegneria meccanica l’uomo liberava il cavallo e poneva le basi per la nascita di un oggetto rivoluzionario, descritto come capace di spostarsi da sé: l’automobile.
Si arriva così al 3 luglio 1886 quando tra gli sguardi dei passanti, le cui espressioni variavano tra lo stupore e il disgusto, Karl Benz effettuò la prima passeggiata automobilistica della storia. In un primo momento la vettura era sprovvista di un vero e proprio serbatoio, e quindi si rese necessario che Eugen Benz, il primogenito, seguisse a piedi l’auto riempiendo il carburatore ogni volta che esauriva la sua scorta di carburante. La stampa dell’epoca non si fece scappare la notizia e tra parole di apprezzamento e di grande fiducia ne decantò le lodi ma, ignorandone il vero nome, battezzò la vettura “Velociped”. Infatti, quando si parla di Benz Velociped ci si riferisce proprio alla Patent Motorwagen. Nonostante tutto la vettura fece fatica a conquistare i favori del pubblico e il successo tardò ad arrivare. Neanche il tentativo di presentarla a una mostra era servito per cui Benz cadde in depressione.
Fu la moglie Bertha a ideare uno stratagemma tale da far impennare la celebrità della vettura e la sua reputazione dal punto di vista dell’affidabilità. Il 5 agosto 1888 la signora Benz “rubò” l’autovettura al marito e con i due figli percorse i circa 90 km che la separavano dalla casa dei suoi genitori, per poi tornare a Mannheim. La voce di tale impresa si diffuse ben presto nell’intero Paese. Con il suo stratagemma, Bertha Benz, non solo contribuì a consolidare la reputazione della Patent Motorwagen, ma anche al concetto stesso di automobile.
